NOSTRA SIGNORA
Postato il 16 Maggio 2019, di Piergiorgio Giacchè
notredame

La sera del 15 aprile la cattedrale di Notre Dame di Parigi ha preso fuoco. Fiamme subito altissime e per tutta la notte indomabili se la sono mangiata viva. O già morta?
Che cos’è una cattedrale oggi, nel deserto di una spiritualità che è volata via lasciandoci in cambio un immenso deposito di beni culturali e artistici tutti da salva-guardare, nei due sensi della conservazione storica e della visitazione turistica? E come appare e come si giustifica un incendio lungo tutta una notte, se non come una sfida anzi un insulto alla meccanica del soccorso e – soprattutto – alla dinamica della “notizia”? Già, perché una “foresta” che prende fuoco (forêt si chiamava la selva di travi del tetto di Notre Dame) resta accesa oltre il tempo della sorpresa, non si fa spengere senza una lunga lotta e – quel che è peggio – non obbedisce alla velocità del detto&fatto che è la regola del giornalismo televisivo che riprende tutto e lo riduce a niente. La lunga durata impone di buttare acqua sul fuoco raccattando messaggi e moltiplicando messaggeri che spesso le sparano più grosse dei pompieri: così, assieme ai biglietti di cordoglio di tutti i politici vicini e lontani, un critico d’arte di cui non vale fare il nome (Sgarbi) sdrammatizza la perdita di un monumento fin troppo rimaneggiato, un amateur di storia ricorda l’incoronazione di Napoleone, un uomo di stato americano invoca un adeguato bombardamento d’acqua, un solerte funzionario rassicura sul salvataggio delle statue e sul ricovero in sacrestia degli arredi più preziosi… e infine – anzi subito – il presidente francese assicura una rapida ricostruzione e chiama a raccolta architetti che già sognano (e in brevissimo tempo disegnano) una nuova copertura in vetro con terrazza panoramica e con giardini pensili di babilonia… Insomma, le notizie devono alzarsi più alte delle fiamme e battere dove il lutto duole per spengerlo prima ancora del fuoco, che intanto si innalza e finalmente abbatte la grande guglia centrale, regalando alla televisione una scena da replicare infinite volte per simulare un finale… che non arriva mai. Non per ora, anzi non per ore e ore…
Chi ha seguito la diretta (non importa in quale canale italiano o francese) non ha potuto non avvertire il contrasto fra l’avvenimento e il suo trattamento, fra la commozione per l’evento e l’irritazione del commento: ci si divide fra la “luna” del fuoco che incanta lo sguardo e “il dito” che insegna storia e arte e varia umanità, fra un’emozione inspiegabile e l’erudizione che invece spiega l’importanza di un monumento… il più visitato di Francia dopo la Torre Eiffel, dicono i dati e i dotti e finalmente i doni di aiuti finanziari esagerati, a un miliardo per volta o per Vitton che è lo stesso… I gilet gialli si sono poi incazzati per tanta tracotante generosità, ma le convenienze fiscali non spiegano il gesto che è invece regale e patronale, come ai tempi in cui la devozione dei ricchi valeva una chiesa e quella dei poveri appena una messa. Ma “devozione è una parola antica, al momento chiamiamola pubblicità”, e nemmeno i gilet gialli sono indenni da questa tentazione ovvero al riparo da questa irreversibile e irresistibile “rivoluzione”… Eppure, chi ha seguito la diretta e poi la differita e ancora oggi ci pensa, perché lo ha fatto se non per quel che è rimasto della devozione, cioè la sua mancanza? Malgrado e contro le chiacchiere dei cronisti e i commenti dei tronisti della cultura, fuori dai riflettori e dall’occhio delle telecamere una folla attonita resta ipnotizzata da quel rogo che ad alcuni appare come un rovo biblico: molti giorni dopo si potevano ancora leggere due pagine incollate sopra il parapetto del fiume che circonda la cattedrale in fiamme, scritte da un testimone che è stato lì a fissare il fuoco per tutta la notte. Una lunga laica preghiera che si conclude così: “Notre Dame a brulé. Je ne crois pas ces quatre mots. Je ne veux pas croire ce que j’ai vu.” Se togliamo l’accento dell’emozione, resta la nuda traduzione: non ci si può credere, non c’è più modo di credere. Tutti lo sanno, anche gli ultimi devoti, che “non c’è più religione”, ma non ci si può sottrarre al suo rimpianto.
notre dame In altri tempi altre genti avrebbero sottolineato, invece del pesante antico valore del Simbolo storico, il dolore e l’allarme di un Segno divino, proprio perché, a differenza delle fin troppo citate torri gemelle di New York, all’incendio di Notre Dame “non è morto nessuno” mentre bruciava tutto… all’ora dell’ave maria per di più. E qualcosa vorrà dire se un fuoco sacro - nel luogo dove prima dei turisti andavano e venivano e abitavano viandanti e pellegrini e bisognosi di fede e speranza e carità – ai nostri tempi non significa niente… “Eppur ci si commuove” (inutile negarlo) nel senso proprio del muoversi insieme alle fiamme, che non saranno più eterne ma restano pur sempre ambigue, qualcosa fra la distruzione e la purificazione… Qualcosa che gli spettatori e perfino i telespettatori sentono senza più patire (inutile dirsi delle bugie), ma anche qualcosa che i chierici della cultura e i patroni della politica non vogliono nemmeno sentire e non possono più capire.
E allora? Bando ai finti sentimenti ma bando anche alle dotte chiacchere, poiché l’incendio del tetto di una chiesa, foss’anche la prima di Francia, non giustifica né gli uni né le altre. Da un lato, l’incendio di Notre Dame non è una “tragedia” ma appena un “dramma” – dice lo stesso vescovo di Parigi – e non può essere niente di più in tempi e mondi dove i disastri sono al disordine del giorno e si è tristemente abituati ai crolli e alle stragi e alle bombe – per tacere delle guerre, della fame, delle cento cause ed effetti da fine del mondo… Dall’altro lato, è pur vero che non succede mai nulla di “irreparabile” se si fa parte di quegli “ottimisti” che scambiano ogni rovina per una seconda opportunità, una nuova occasione di dare lavoro e ricevere denaro e ricominciare daccapo, all’infinito. Del resto, tutto ha avuto inizio o innesco da solerti lavori di restauro, e che c’è di male se il bene culturale richiederà altri lavori alimentando quell’economia da disastro che è da tempo il letterale toccasana del territorio?
Ci sarà sempre, come nei casi dei terremoti nostrani, chi si frega le mani, ma c’è anche chi in ogni senso “se ne frega”. Soprattutto e per primi gli italiani – come recita lo slogan attualmente vincente – ed è appunto Salvini che quella notte della madonna diventa casualmente il Simbolo e s’inventa il Segno del buon esempio. Come si sa e si è già discusso anche troppo, dopo aver inviato anche lui le condoglianze all’odiato governo francese, twitta la rituale buonanotte ai suoi devoti:
“Dopo una giornata impegnativa e a tratti complicata, fra problemi, processi e soluzioni, mi concedo qualche minuto di relax. Vi abbraccio amici del Grande Fratello”. Cambiare canale non è reato e poi non è un vero cambiamento o tradimento: da noi Nostra Signora ha un altro nome e ruolo, da tempo non è la madre del cielo ma il salve regina dell’etere. Di lunedì, tocca a santa Barbara D’Urso – e mai nome fu più adeguato – che dalla sua casa chiusa, cioè di clausura per mezze figure che un domani saranno famose, dà a tutti la buona notte e pace all’anima nostra. Si Salvini chi può!

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