Delle incerte passioni
romanzo di Francesco Torchia
cover

Primi anni Settanta: una compagnia di giovani attori e studenti di filosofia è alle prese con una messa in scena dell’Amleto, nella quale vita e teatro si confondono. Ma l’opera alla fine non vede la luce e la compagnia si scioglie.
Nei decenni seguenti (dagli anni Ottanta ai giorni nostri) ciascuno dei componenti continua il suo cammino in solitudine, ma un tarlo vive in ognuno: l’ombra dell’opera incompiuta, la traccia di un sogno irrealizzato, di una passione giovanile sfumata.
La domanda è per tutti uguale: che cosa c’era di tanto forte ed essenziale in quella prima esperienza che è andato perduto? La risposta è per ognuno diversa, ma tutti dovranno fare i conti con il passato per ritrovare se stessi o perdersi definitivamente.

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Presentazione di Rossella Regni - Perugia 19.03.2019

Romanzo intenso, di pensiero e di poesia (di pensiero poetante), di introspezione e visionarietà, di ampi sguardi sulla realtà contemporanea, di rigorosa analisi degli eventi più lontani e più vicini a noi, nell’osservazione dei quali mai elude una scelta di campo e mai risparmia l’esercizio critico che riguardi il campo scelto.
E l’aggettivo di un titolo così volutamente classico (tanto classico da far sospettare da subito una polemica, un conflitto con i nostri tempi sgangherati e scomposti) il lettore lo deve assumere come viatico dalle prime alle ultime pagine; è la traccia che lo incuriosisce man mano che ricerca e si chiede il perché, il senso delle vie intraprese negli anni da Ratio, Feli, Rosso e Lampa, Willie e Caty, i personaggi che potremmo chiamare, tutti, deuteragonisti oppure comprimari della storia. Sì, perché queste figure si muovono a cerchio intorno ad un centro, il cuore pulsante dal quale si irradia il sangue comune, prende forma la vita di tutti. Con essa la trasformazione culturale degli ultimi decenni, in una geometria definita, limpida, entro una struttura narrativa che dà ordine al percorso, partendo dalla stessa dimensione cronologica, dal tempo: quattro infatti sono i passaggi che scandiscono i blocchi narrativi, e corrispondono a quattro date di riferimento che parlano da sole della nostra età: 1972, 1986, 1998, 2015.
Allora in questo romanzo, magari in posa davanti ad uno scaffale (o dentro?) di un supermercato, muovendo un carrello, o come spettatori divertiti da uno spettacolo comico, o semplicemente dentro un bar, sempre assorbiti dai nostri ruoli ma come individui che tentano, anche annaspando, di interrogarsi, o che solo al tentativo di farlo hanno rinunciato per paura, sfiducia, disperazione o semplicemente perché si sono dimenticati le domande, le hanno perse per strada, ecco, in questa storia che parte da lontano, ci siamo anche noi: l’autore ci chiama in causa, anche severamente, facendoci ripercorrere a tappe gli ultimi decenni e le relative trasformazioni culturali che con essi si sono avvicendate.
Emanuele Trevi (Qualcosa di scritto) ha osservato che il fenomeno ineluttabile oggi in letteratura corrisponde ad una precisa richiesta del mercato editoriale: lo scrittore, che deve saper intrattenere il lettore per indurlo a riconoscersi nella storia, diventa omogeneo al lettore, deve assomigliargli il più possibile... Reciproco sostegno, e reciproca corruzione (solo il simile corrompe il simile).
Anche condividendo in parte questa convinzione (basti leggere qualche autore in auge) nella logica commerciale di questi anni si avverte che la linea dominante nella narrativa è la rinuncia alla provocazione, lo spostamento dello scrittore entro l’universo del lettore, il venir meno di una sua forza di attrazione: linguaggio e modelli, parole e idee si conformano di conseguenza a questa terribile intenzione omologante.
Delle incerte passioni è lontanissimo da questa tendenza, appartiene certamente ad una linea minoritaria, coraggiosa: non si fa attirare dal lettore, non cerca di assomigliargli, non tenta alcuna captatio benevolentiae; la lente attraverso la quale legge la realtà sottintende un insieme di ideali, di tensioni inevitabilmente problematico per chi legge. L’autore ci coinvolge quindi provocandoci: a volte gentilmente, a volte ironicamente, a volte severamente, ma dalla prima all’ultima pagina, pur nella polifonia tonale, nella varietà delle situazioni e dei profili dei personaggi, l’orizzonte ideale, l’esercizio critico sulla realtà, la ricerca di senso ci attraggono, ci obbligano a rispondere.


La prospettiva storica: il passato e il presente e forse il futuro. La storia/le storie

La narrazione si muove da un passato che sembra ormai tanto lontano, dal 1972, dalle vicende di una compagnia teatrale in una (volutamente) indefinita città universitaria italiana. C’è un gruppo di amici, giovani studenti legati tra loro, pur con diversa intensità, dagli slanci di un’interiorità non comune.
Il teatro, come la poesia, è per loro ricerca della verità, ricerca che distrugge le convenzioni, scava e distingue, è finzione nel senso etimologico di creazione, immaginazione del totalmente altro, luogo di indagine per l’autenticità, unica possibilità in lotta contro la falsità della realtà.
Le strade però si dividono e da qui si snodano/ svolgono/, nella seconda parte del romanzo, gli altri quattro tempi della storia: il gruppo si scompone in spazi di solitudini sommerse dall’oblio del passato.
Qualcuno sceglierà di scendere all’inferno, di entrare dalla porta principale nel regno della vita inautentica, negli anni riflusso e del rampantismo, altri personaggi si proiettano su sfondi altrettanto realistici, connotati, fisicamente distanti tra loro, ma forse solo apparentemente.
Le individualità dei personaggi sono scolpite e poi cesellate, il fluire dei pensieri e la fisicità delle azioni ricostruiscono la sostanza di vite sospese (dove accade anche che i ruoli narrativi si trasformano, come nelle storie di Leo e Rosso).
Il cammino verso la sintesi ci fa arrivare ai nostri anni recenti; significativamente, credo, all’anno in cui il romanzo è stato scritto.
Le intensissime pagine finali sono dettate dal recupero della memoria, ma non solo per rivivere il passato: evocati i fantasmi del tempo perduto, con la coscienza delle lacerazioni del mondo, l’ultima voce si immette sulla via tutta umana per ricomporre l’infranto, per includere il futuro che dia senso alla vita.
Si chiude così (ma resta comunque aperta) una storia illuminata dalla poesia.

Scelte di stile: “pronunciare parole” e la cura della forma; la complessità del dire

In scena non si può parlare con la lingua piatta e banale della quotidianità: risponde così uno dei personaggi ad una critica maldestra sulla inattualità di complesse forme espressive (nella fattispecie si parla di Shakespeare!).

Nella narrativa a noi contemporanea la facilità immediata di lettura, il ricorso al sermo cotidianus, spesso indefinito, o anche il fraseggio minimalista più rarefatto sono motivati spesso da un equivoco sull’idea di realismo, coniugato di conseguenza alla genericità espressiva, certamente programmata, intenzionale, ma che, divenuta condizione preliminare, regola implicita, rischia l’insignificanza.
Dai nobili padri, dagli scrittori che hanno affidato all’azione e al silenzio l’attuazione di felici poetiche d’avanguardia gli epigoni hanno spesso ripreso, credo, la maniera e non la sostanza, oppure non hanno scavato abbastanza sulle ragioni della forma che devono essere essenziali, intrinseche al soggetto.
Leggendo questo romanzo, invece, si ritrovano una classicità (nel senso moderno), una chiarezza molto marcate sia nella ricchezza ed esattezza dell’ampissimo repertorio lessicale, sia nel respiro della sintassi che sa variare il suo ritmo in relazione ai personaggi, alle situazioni, ai dialoghi, alle descrizioni, alle fisionomie dei diversi soggetti.
La scrittura ci afferra in un vortice, fluido sia nelle descrizioni della realtà che nell’analisi dei pensieri, articolando, moltiplicando, sfaccettando, variando sul tema non certo per gusto virtuosistico: il pensiero e la parola si identificano, non si avverte mai ridondanza in quelle frasi che si susseguono come brevi piccole cascate, ognuna delle quali ci conduce un po’ oltre, fino a restituirci con pienezza l’oggetto, la scena, l’ordine vario dei numerosi monologhi interiori che rendono così piena, energica la scrittura; e rapita la lettura.
L’attenzione al dettaglio, all’uso del repertorio post-grammaticale, tecnico, specialistico (es. l’opera pittorica finale di Feli) connota il lessico; verbi, sostantivi e aggettivi sono articolati in moduli binari e ternari. Un flash di poche righe nel romanzo (che scelgo come esempio proprio per la sua totale marginalità rispetto al sistema dei personaggi e alla complessità della struttura narrativa): un anonimo nuovo barbaro dei nostri giorni, al bar. Come affiora muto, muto sparisce dalla scena: giovane, tarchiato e sbracato-alla moda, i capelli scolpiti anch’essi alla moda, fisicamente invadente, incurante della prossimità, insensibile all’umanità che lo circonda, trangugia “con una lussuria spudorata, quattro grossi bignè, il primo ripieno di cioccolato, il secondo di panna e i restanti due riccamente farciti di crema debordante sotto i morsi...”. È un personaggio già pronto per salire sul palco, con tutti gli oggetti scenici al loro posto, sintesi ben rappresentativa di tempi sguaiati e sformati.
Altri elementi che mettono alla prova felicemente la duttilità della scrittura li troviamo nella fusione tra racconto e descrizione, nelle riflessioni dell’io narrante che fissano i passaggi della storia e ne analizzano cause e conseguenze, in pagine piene di domande e di risposte sul senso delle scelte della compagnia o, poi, sui dilemmi, sulle insoddisfazioni delle singole solitudini. L’introspezione, lo scandaglio dei sentimenti ci fa ritrovare nel ritmo articolato della prosa quel tempo dell’interiorità che non fa parte delle scelte narrative oggi egemoni.

presentazione

Commento post-lettura di Romina Perni - 27.03.2019

Leggere questo romanzo è stata un'esperienza unica. Le parole mi hanno scosso dentro, mi hanno scosso fuori. Mi sono sentita nel passato, quando vivevo un'esperienza unica – per me – con voi, con Liminalia, mi sono sentita nel presente, con la perenne nostalgia di quei momenti e nella continua ricerca di un loro surrogato negativo, mi sono sentita nel futuro, a chiedermi come sarò tra qualche anno, quasi con la tacita speranza di poter vedere dall'esterno la mia vita, compresa quella ancora non vissuta, un po' come accade per i personaggi del romanzo. Tempi e contesti diversi, quelli descritti nel romanzo, eppure così vicini.

Ma al di là di queste impressioni-suggestioni soggettive, lo spessore del testo sta in altro. In un punto, secondo me essenziale, il filo conduttore, se vogliamo chiamarlo così e se una direzione realmente c'è. Altri lettori ne potranno individuare di diversi, la densità delle pagine consente a ciascuno di prenderne una parte e farne la direzione, più o meno legittimamente.

La ricerca di una pienezza (forse) impossibile è ciò che spinge ognuno dei personaggi, e ognuno di noi, ad andare avanti. Non so nemmeno io cosa intendere con questo noi. Noi, donne e uomini, tutti o forse noi che non ci scoraggiamo di fronte alle enormi contraddizioni della vita, che non facciamo vincere la dissoluzione totale o la superficialità. Non so.
Si tratta di una ricerca che immagino comune a tutti gli esseri umani, la cui base è l'inquietudine costante, la lotta per portarla avanti uno sforzo vitalistico (ma che non porta necessariamente alla vita). In un mondo che per quei personaggi, per molti di noi, va nella direzione opposta. Ci andrebbe comunque, ciò che altro da noi ci fa sempre resistenza. Ma la resistenza diventa enorme quando mentre si cammina per raggiungere un pieno, ciò che è intorno a noi si fa sempre più irrimediabilmente vuoto.

C'è chi riesce ad adattarsi a questo vuoto. C'è chi si sforza, chi ne ha paura. C'è chi si ritaglia una nicchia, un nido, chi non ce la fa. Ma lo sforzo è comune, anche se si risolve comunque in sforzi solitari; anche se le persone sono vicine, lo sono in quanto monadi.

Mi capita spesso di osservare le persone intorno a me e notare qualche cosa, nel loro modo di parlare, di relazionarsi con gli altri, potrei anche dire di vivere in generale, che non torna. Un aspetto minimo, qualcosa che devia, che è indice di un turbamento, quale che sia la sua natura. Se non è subito evidente, mi metto proprio a cercarlo.

Questo romanzo indaga la natura di quel turbamento, di quell'inquietudine. Propone delle soluzioni per trovare la quiete? Forse sì. È un manifesto per una condotta di vita che si reputa giusta? Sicuramente no. Non si tratta di assoluti, non è nulla di facile. Mostra delle contraddizioni, dei tentativi di risolverle, mostra il giusto del pieno, a volte ponendolo come frutto di una riflessione molto in alto, a volte ricordando che si tratta comunque di qualcosa che riguarda la carne dell'”uomo” e la sua anima, che forse qualcosa di diverso dal corpo non è. Mostra il vuoto del vuoto, ma parla anche della difficoltà di rendersi conto di questo vuoto.

È un romanzo in forma di poesia continua. Che brucia e brucerà chiunque gli si è accostato e gli si accosterà.

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