Visioni del digitale
Postato il 12 Settembre 2018, di Giuseppe Torchia
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Riprogrammazione digitale

Questo articolo nasce dalla lettura del saggio Nello sciame (2013) del filosofo sud coreano Byung-Chul Han. Non è una recensione bensì un tentativo di sviluppare alcuni spunti di riflessione, alcune intuizioni (‘visioni’, come recita il sottotitolo del libro) che l’autore fornisce nel corso della trattazione. Nel saggio il filosofo si occupa degli effetti profondi prodotti dal medium digitale i quali, agendo al di sotto del livello cosciente, genererebbero una riprogrammazione del nostro modo di essere nel mondo. In realtà questa non è una prerogativa del medium digitale. Già la televisione con il suo profluvio di immagini viene da tempo considerata come un mezzo di comunicazione di massa in grado di plasmare i comportamenti dei suoi spettatori. Tuttavia l’avvento dell’homo digitalis che va a giustapporsi all’homo videns, piuttosto che sostituirlo, si manifesta attraverso forme inedite dotate di un forte potere pervasivo.


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Da consumatori a produttori

Ai tempi della critica della televisione, come mezzo di comunicazione di massa, si parlava soprattutto degli effetti di passivizzazione e di fascinazione ipnotica che il mezzo determinava negli spettatori trasformandoli in meri consumatori facilmente condizionabili. Con la rapida espansione del computer e di Internet, a partire dagli anni ‘90, si sperimentava invece la possibilità di un rapporto attivo con il nuovo medium. L’interazione veniva ora ad essere considerata la caratteristica principale del medium digitale a tal punto che con l’avvento dei social network, si inaugurava la presunta trasformazione dell’utente da consumatore a produttore. Se la televisione era ed è un mezzo di comunicazione di massa che ha inventato il concetto di “uomo-massa”, il computer si propone invece come un medium capace di restituire all’individuo la sua dimensione personale com’è implicito nell’espressione “personal computer”. La “personalizzazione” del PC nei suoi aspetti hardware e software è diventata il paradigma del cambio di prospettiva del nuovo medium rispetto ai precedenti. L’enfasi posta su questi aspetti (interazione, produzione, personalizzazione) ha idealizzato la loro portata facendo immaginare la nascita di un utente-individuo protagonista del medium digitale, implicitamente dotato di un’autonomia e libertà inedite. Oggi, con la diffusione e la frequentazione massiccia delle reti sociali virtuali, questa ottimistica profezia ha assunto in realtà un significato più clinico che politico-culturale riassumibile nella formula: “adesso sono io al centro del mondo, adesso il mondo ruota attorno a me.”


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La scomparsa della sfera pubblica

Mettere al centro se stessi nella comunicazione e nell’informazione ha significato per Han cancellare quel necessario pathos della distanza che costituendo la base del rispetto, del riguardo nel rapportarsi agli altri, ha compromesso il fondamento della sfera pubblica. L’assenza di distanza ha condotto a quella che il filosofo chiama l’“esibizione pornografica dell’intimità” e ad una commistione di pubblico e privato. Tuttavia l’irruzione del privato nella sfera pubblica non è un fenomeno ascrivibile unicamente al medium digitale. Han non vi fa cenno, ma già la televisione con i suoi reality ha da tempo trasformato la segretezza della vita privata in una rappresentazione iperreale intesa, come c’insegna Baudrillard, come una simulazione mediatica della realtà che si manifesta più attraente e coinvolgente della realtà stessa. D’altra parte sul versante politico sin dagli anni ‘80, nel mondo anglosassone, come racconta il sociologo Frank Furedi nel suo libro Il nuovo conformismo (2008), si è assistito ad una lenta e progressiva colonizzazione della vita pubblica da parte delle emozioni private. I personaggi politici hanno trovato sempre più proficuo rivelare aspetti della propria vita privata ricevendone l’approvazione da parte dei media. In questo modo si è promossa la percezione di una loro prossimità ai propri potenziali elettori in quanto persone con comuni sentimenti. Si tratta di un fenomeno che si è lentamente affermato anche negli altri paesi del mondo occidentale creando tra mass media e politica un perverso rapporto circolare che si è configurato come un circuito capace di auto-alimentarsi. Quando nel 2004 appare Facebook la frittata è fatta. Ora si poteva essere non più soltanto spettatori di reality destinati a vivere processi di rispecchiamento, proiezione e/o identificazione con i personaggi in scena ma protagonisti pronti a mettere in vetrina sul proprio “diario” spezzoni di vita privata miscelando foto e parole in grado di suscitare la curiosità e gratificanti “mi piace” da parte degli “amici”. E se i talk show prevedevano soltanto la possibilità per gli spettatori di partecipare attraverso telefonate in diretta o tramite televoto, adesso con i social network si apriva il campo alla possibilità per ogni utente di atteggiarsi a opinionista preso dalla foga di “dir la propria”. Il processo che si è innestato, privo di qualsiasi filtro, ha comportato un travalicamento dei freni inibitori, sfociando in quel fenomeno definito shitstorm (letteralmente: “tempesta di merda”). Un anglicismo che indica il verificarsi in rete di critiche feroci che attraverso parole fortemente aggressive, offensive e volgari si abbattono sul bersaglio: un personaggio pubblico, un partito, un’autorità, un’istituzione ma anche un qualsiasi interlocutore virtuale autore di un commento o di un post. Nessuno e niente è risparmiato. Nell’epoca dell’esaurimento delle passioni politiche la sovraeccitazione indotta dal medium digitale, consumata al suo interno e vomitata all’esterno come ‘opinione pubblica’, prende il posto del vecchio attivismo politico e/o sindacale, annulla i rapporti asimmetrici tra trasmittente e ricevente, consumatore e produttore e inaugura, o porta a compimento, assieme agli altri media, l’apoteosi del feticcio del ‘popolo’.


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L’indignazione digitale

Sul Web l’indignazione non costa nulla, la si può esercitare con poco sforzo. È veloce e immediata. Si presenta come una reazione viscerale, una sorta di forma digitale del reflusso gastroesofageo. Un post o un tweet indignato possono costituire una terapia a potenziale rapido effetto. Il suo potere “curativo” dipende dai tempi di risposta degli “amici” con i loro “mi piace”, commenti e condivisioni. Più si moltiplicano, più la catarsi può realizzarsi. L’indignazione digitale rivela il carattere reattivo piuttosto che interattivo del medium e fa della funzione emotiva del linguaggio la sua cifra stilistica. I social network non sono un’agorà in cui si dibattono temi e problemi per prendere decisioni, ma luoghi virtuali dove prevale l’espressione dell’impulso momentaneo che chiede soltanto di essere approvato o disapprovato. Scrive Han: “La prima parola del’Iliade è menin, ossia ira. “Cantami, o Musa, l’ira del Pelìde Achille”: così comincia la prima narrazione della cultura occidentale. L’ira è, qui, cantabile, poiché sorregge la forma narrativa dell’Iliade, la struttura, la anima, le dà vita e ritmo. È il medium dell’azione eroica per eccellenza. L’Iliade è un canto d’ira. Quest’ira è narrativa, epica, perché produce determinate azioni: è essenzialmente in ciò che l’ira si distingue dalla rabbia come espressione delle ondate di indignazione. L’indignazione digitale non è cantabile: non è capace di azione né di narrazione. Rappresenta, piuttosto, uno stato affettivo, che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni.” L’homo digitalis abita un solipsismo che non lo avvicina agli altri se non attraverso la dimensione del contagio. Si dice appunto che un post, un tweet, un video, un’immagine possono diventare virali, ricevere moltissimi likes, commenti e condivisioni. Ma ciò che creano non è un Noi capace di azione comune in una direzione bensì un assembramento casuale di singoli che generano un gran frastuono che spesso si riverbera su altri media trasformando un granello di sabbia in una distesa di dune. La moltitudine che si agita nelle reti sociali e che Han chiama “sciame digitale”, non ha nulla dell’immagine tradizionale della folla-massa. In quest’ultima i singoli si saldano in una unità capace di costituire un Noi che aspira a parlare con un’unica voce. I movimenti di massa unificati da un’ideologia, da comuni bisogni e valori, hanno costituito per buona parte del Novecento, nel bene e nel male, una realtà sociale in grado di esprimere un Noi. Lo sciame digitale si differenzia dalla massa classica in quanto composta da individui isolati tesi a curare e ottimizzare il proprio profilo. L’homo digitalis non cerca il dialogo né è capace di ascolto. Ciò che cerca è l’Uguale non l’Altro. Un tema che il filosofo coreano ha affrontato in un altro saggio, L’espulsione dell’Altro (2017). “Il tempo in cui c’era l’Altro è passato. L’Altro come mistero, l’Altro come seduzione, l’Altro come Eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come inferno, l’Altro come dolore scompare. La negatività dell’Altro cede il posto alla positività dell’Uguale. La proliferazione dell’Uguale dà luogo a quei mutamenti patologici che infestano il corpo sociale. A renderlo malato non sono divieto e proibizione, ma ipercomunicazione e iperconsumo, non rimozione e negazione, ma permissività e affermazione.”

De-medializzazione

Nel medium digitale l’utente non ha più soltanto il ruolo di destinatario di un’informazione unidirezionale ma assurge al ruolo di produttore e promulgatore di informazioni. Media come i blog, Facebook, Twitter, de-medializzano la comunicazione e finiscono per imporsi come fonti attendibili di informazioni che, sottratte ad ogni accertamento e prive di filtri, sono libere di circolare in rete e di rimbalzare talvolta anche nei media tradizionali. Questo processo volto all’abolizione di intermediari nel campo della comunicazione e dell’informazione ha coinvolto inevitabilmente anche il mondo politico. La disintermediazione ha acuito la crisi della rappresentanza politica che ha origini senz’altro più remote rispetto alla diffusione dei dispositivi digitali. La mediazione politica che un tempo era considerata come necessaria per tradurre le istanze sociali in progetto politico è ora considerata come sinonimo di distanza dal ‘popolo’, indifferenza e persino disprezzo nei suoi confronti. La politica si è adeguata a questo nuovo corso prendendo atto che un “cinguettio” su Twitter o un video su Facebook dove “ci metti la faccia”, vale più, in termini di popolarità e consenso, di un ragionamento, di un’analisi, di una riflessione proposta attraverso strumenti e apparati di comunicazione tradizionali. In questo modo l’utente del social network percepisce il rappresentante politico come uno dei suoi tanti contatti con cui è possibile realizzare una comunicazione orizzontale. Di fatto il suo ruolo è limitato alla logica binaria dell’approvazione/disapprovazione, la stessa del si/no della “democrazia dei click” usata per convalidare o meno scelte politiche pre-fabbricate e pre-confezionate. Ma non solo. La “libertà di espressione digitale” dell’utente è una formidabile fonte di dati che permette ai politici più accorti, quelli dotati di uno spin doctor esperto di medium digitale, di costruire, attraverso strumenti come la sentiment analysis, in grado di estrarre e analizzare opinioni, preferenze e umori che gli utenti esprimono nel web, una strategia comunicativa capace di catturare attenzione, produrre visibilità e consenso. In questo modo il medium digitale si configura a tutti gli effetti come un dispositivo di potere, ciò che Agamben, sulla scia di Foucault, definisce come «qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi». [Agamben G., Che cos'è un dispositivo, Nottetempo, 2006.]


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Lentezza, silenzio e digiuno

La diagnosi spietata della “società digitale” che affiora dalle pagine del saggio di Han può generare sconforto nei suoi lettori. Non è indicata una “cura”. Tutto ciò che possiamo fare è innalzare la nostra soglia immunitaria di fronte al bombardamento informativo che il medium digitale acuisce e amplifica in modo esponenziale. Concedersi lentezza, silenzio e digiuno.
- Lentezza perché il pensiero per esprimere le sue potenzialità riflessive ha bisogno di tempi dilatati. La velocità digitale porta a un’atrofia del pensiero, a un indebolimento della facoltà analitica e trasforma il tempo in una sequenza di tanti ‘presente’ che si succedono l’uno all’altro. La politica stessa ha bisogno di liberarsi dalla tirannia del presente se aspira a costruire futuro. La politica che si adegua ai ritmi del medium digitale anche quando risulta vincente ha il fiato corto e la sua vita è stagionale.
- Silenzio perché è nel silenzio che matura l’ascolto ed è sospeso il giudizio. Il medium digitale produce un frastuono comunicativo in cui prevale la sensibilità soltanto verso quei significati che riflettono noi stessi. Il riconoscimento e l’accettazione dell’alterità dell’altro sono annullati a favore della ricerca di quanto è assimilabile, riconducibile a noi. Stare nel silenzio non significa abitare l’assenza ma sperimentare una presenza altra, costruire uno spazio personale in cui coltivare, ad esempio, letture poetiche, forme di scrittura personale, contemplazione di opere d’arte e/o praticare tecniche di meditazione, camminate lente, ecc. E dopo, ogni volta, ritornare all’incontro, al dialogo con l’altro con parole più meditate, più pensate.
- Digiuno perché soltanto la dis-connessione dal medium digitale, come pratica periodica programmata, può rimetterci in contatto con la dimensione sensoriale della comunicazione. Così facendo potremmo scoprire di non essere realmente connessi con gli altri né con noi stessi ed entrare in contatto con la nostra solitudine. Quella solitudine che affoghiamo nelle miriadi di chat, sms, email, post, commenti che sono incapaci di procurarci ristoro, beatitudine sociale. Nell’era del trionfo della Tecnica è difficilmente sostenibile una posizione tecnofobica volta ad espellere totalmente dalla nostra vita individuale la presenza di dispositivi digitali. Siamo condannati ad essere “apocalittici integrati”. Godiamo degli aspetti utilitaristici e creativi del mezzo digitale e, al tempo stesso, nelle vesti di naviganti del web, ogni giorno siamo partecipi di quell’inebriante stordimento informativo e comunicativo che ci seduce e ci plasma attraverso le lusinghe di una libertà senza confini.

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