EVIVA LA SQOLA! - distopie e utopie educative
Postato il 14 Aprile 2019, di Francesco Torchia
studente

Con questo articolo apro una discussione sul tema della scuola pubblica e invito docenti, dirigenti, studenti, genitori e quanti hanno qualcosa da dire a inviare contributi personali usufruendo dell’apposito modulo dei commenti o, per chi non avesse un profilo Facebook, inviando un messaggio attraverso la pagina dei Contatti. In ogni caso provvederò a pubblicare quanto ricevuto, magari realizzando una pagina specifica dedicata alla scuola.

La scuola pubblica dovrebbe essere l’argine estremo contro il progressivo imbarbarimento dei costumi cui negli ultimi decenni assistiamo impotenti e spesso rassegnati. La scuola tuttavia per così com’è e come è diventata non sembra in grado di svolgere questa funzione, essa stessa si dibatte affannosamente tra nobili aspirazioni educative e una stentata, degenerata e contraddittoria quotidianità.
Immergersi nella vita scolastica d’oggigiorno, specie nelle scuole medie inferiori e superiori, significa accorgersi di un dato di fatto inoppugnabile: la quasi assoluta mancanza motivazionale da parte delle giovani generazioni che la abitano. E, al momento, per quanti sforzi l’Istituzione faccia, per quanto impegno e buona volontà riversino gli insegnanti, per quanta innovazione tecnologica si cerchi di introdurre, nulla riesce a mutare questo primario dato di fatto.
Si va a scuola, ma senza piacere, solo perché si deve, a lezione si ascolta con svagatezza, altri sono gli interessi che attraggono, l’ambizione ad eccellere è riservata a pochi, la spinta a sapere, a conoscere è inesistente, altre sono le cose reputate importanti nella vita: divertirsi, fare soldi, viaggiare…
Così la missione educativa va a farsi benedire, non può che fallire, nel migliore dei casi si può fornire un’istruzione di base, labile e pronta a evaporare con il passare degli anni.

Nella vulgata si tende ad attribuire ogni colpa agli adolescenti che “non sono più quelli di una volta”, vengono su come nuovi barbari, inebetiti e alienati dall’uso massiccio del telefonino tuttofare.

Ma, a parte che “quelli di una volta” non si sa bene quali siano, dal momento che la tiritera è vecchia come la scuola, la verità è che la colpa (se di colpa si può parlare) va spartita tra più agenti e fattori, e che - per quanto invisi agli adulti – i ragazzi sono caso mai le vittime del degrado, certo non innocenti, dal momento che ci mettono del proprio e sembrano inconsapevoli delle conseguenze e non interessati a tirarsi fuori dal pantano.

uttavia cause ed agenti sono naturalmente altri. Proviamo dunque ad elencarli e a verificarne le responsabilità.
Lasciamo perdere “la società”: il discorso si farebbe troppo generale e generico, del resto è lapalissiano sostenere che ad una società malata corrispondano istituzioni, individui, comportamenti malati, e la questione rischia di diventare quella dell’“uovo e della gallina”; pensiamo piuttosto alle varie componenti che animano la “società” e in particolare l’istituzione scolastica.

Prima fra tutte la famiglia.

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È indubitabile che il cambiamento della famiglia negli ultimi decenni sia stato travolgente, sia nei suoi assetti e nelle sue componenti, sia nelle sue funzioni educative. Urbanizzazione, fine della famiglia patriarcale, riduzione delle nascite ed exploit dei figli unici, divorzio, comparsa delle famiglie cosiddette arcobaleno da un lato e delle famiglie di immigrati (magari con religione e tradizioni proprie) dall’altro: fenomeni “spontanei”1 e non regolati (o malamente regolati) che hanno mutato radicalmente il volto della famiglia tradizionale. E sul piano educativo non è da sottovalutare la obbligatoria compagnia sempre più massiccia della tecnologia, prima attraverso la televisione e oggi attraverso i mille dispositivi disponibili (dal computer allo smartphone). Una compagnia talmente radicata da assumere la funzione delegata (quando non sostitutiva) delle figure genitoriali. Attraverso i mille schermi, grandi e piccoli, che circondano sin dalla culla i cuccioli dell’uomo, il mondo è entrato a far parte della famiglia, filtro e medium d’ogni gesto e d’ogni emozione, catalizzatore persino dei processi cognitivi, sottratti alla gestione di genitori inconsapevoli delle conseguenze che la convivenza non intermediata con la tecnologia-mondo determina nella formazione dei propri figli. Il “mondo”: tutta la babele di attrazioni e frustrazioni, l’insieme caotico di occasioni e fallimenti che stanno fuori del nucleo familiare, nelle strade, nei mercati, sul web, nelle altre famiglie, nei palazzi del potere, nei set posticci di fiction e pubblicità. Una giungla di informazioni e segnali che quotidianamente e massicciamente bombardano giovani corpi e menti indifese, creando abitudini, modellando pulsioni e comportamenti, solleticando bassi istinti, confondendo e deviando in definitiva l’azione anche del genitore più responsabile e preparato. Si capisce come questa situazione, da cui sono in parte esenti solo gli strati più poveri della popolazione, perdurante dagli anni sessanta del secolo scorso, e dunque forgiatrice anche dei genitori e persino dei nonni di oggi, abbia generato il modello della “famiglia tecnologica” il cui motto è “vivi e lascia vivere” che tradotto in altre parole significa: i figli nascono, crescono e si fanno adulti all’insaputa dei loro genitori che del resto erano già nati, cresciuti e diventati adulti malgrado i loro genitori.

Se una mamma è compagna e amica della propria figlia anziché essere guida, se padre e madre al pari dei propri figli sono ancora ossessionati da problemi che si portano appresso dall’adolescenza e dunque sono immaturi, a loro volta eternamente figli, se la maturità e la vecchiaia sono allontanate e respinte come maledizioni, non c’è da meravigliarsi, perché tale condizione resa permanente è l’obiettivo del mondo riflesso che la tecnologia introduce nell’habitat familiare: è la condizione ideale per avere in pugno desideri e bisogni dell’intera umanità.
Dunque ogni appello che giunge alle famiglie dalle istituzioni educative è destinato a restare lettera morta o a ricevere risposte contraddittorie quando non scomposte.

In secondo luogo la scuola,

in ciascuna delle sue componenti.
A proposito della scuola e della valutazione della sua condizione attuale, va fatta una premessa: nessun’altra istituzione pubblica negli ultimi vent’anni ha visto un accanimento “riformatore” come la scuola. Dalla riforma Berlinguer del 2000, alla Buona scuola del 2015 ogni ministro/governo insediatosi, ha ben pensato di intervenire per peggiorare una situazione già di per sé molto difficile. In verità la riforma è come una tela di Penelope che non vede mai la luce: di giorno il ministro in carica tesse, di notte il ministro successivo disfa e ritesse e così via. Nessuna riforma è stata mai attuata in pieno e in conclusione la scuola italiana primaria e secondaria resta ancorata al modello classista gentiliano. Soprattutto, ogni riforma ha puntato all’aspetto burocratico-organizzativo (senza mai risolverlo una volta per tutte) e ha tralasciato l’aspetto didattico, metodologico, la parte riguardante i contenuti dell’insegnamento. Alla fine si è trattato sempre dell’annosa questione dei concorsi, delle graduatorie, peraltro – a dispetto dei tentativi riformatori – ancora oggi senza definitiva soluzione in particolare nella prospettiva futura.
Cosa succede nella scuola oggi, in che rapporto sono insegnanti e studenti, cosa s’insegna e cosa s’impara?2
C’è un problema con gli insegnanti che sono tanti, in esubero, e non sempre “vocati” alla missione dell’insegnare. Certamente c’è una questione aperta riguardo alla retribuzione (tra le più basse in Europa), certamente ci sono molte eccezioni, certamente ci sono tanti che –nonostante tutto – si danno da fare, cercano disperatamente di recuperare se non un carisma/autorevolezza perduti, almeno il senso di una funzione vitale per la società, ma non si può negare che nella media il corpo docente è poco motivato, appena sufficientemente preparato, privo di quel fascino necessario in ogni relazione educativa. I più tirano a campare, con molte ragioni dalla loro parte, prima fra tutte la progressiva burocratizzazione dell’istituzione scolastica (risalente ai malfatti decreti delegati del lontano 1977 e accresciutasi nel corso dei decenni successivi), ma anche con molti torti che possono essere riassunti in una assuefazione allo status quo, nel rifugio in una “mediocrità”, ben poco aurea, segno di una sopraggiunta apatia, di una rinuncia all’impegno personale. Il problema esiste soprattutto per i ricambi, cioè per le giovani generazioni che, al di là del personale curricolo di studi, sono cresciute nel clima non certo esaltante degli ultimi decenni e, tra riflussi, finte euforie, individualismi e progressiva passivizzazione, non hanno sufficiente personalità per affrontare le sfide del nuovo tempo.
C’è un problema con gli studenti che cresciuti nella devalorizzazione contemporanea non sono disponibili a dar credito a nessuna autorità istituzionale (che si tratti del genitore o dell’insegnante) e per di più sono convinti che il fai da te – supportato dalla rete, dai social network, dallo scambio orizzontale, dalla sottocultura giovanile (leggi i guru rapper o trapper che siano) – sia sufficiente a formarli come uomini già adulti. E non dimentichiamo che, al contrario della penuria di mezzi culturali di ieri, il ragazzo di oggi ha a disposizione mille gadget che distraendolo e assorbendolo all’ottanta per cento gli insufflano l’illusione di una piena autosufficienza, invitandolo a snobbare qualsiasi altro canale in-formativo (scuola compresa).
Così gli studenti vivono il tempo della scuola come un obbligo per quel pezzo di carta che poi, si sa a priori, non conterà niente, e lo trascorrono con le orecchie per tre quarti ingombrate dagli auricolari, gli occhi incollati ai microschermi dei cellulari, la mente rivolta alle mille occasioni di divertimento che la società dei consumi offre al consumatore in erba.
classe morta Di conseguenza il rapporto insegnante/studente è una mission impossibile, chiuso in partenza, e gli sforzi che molti insegnanti fanno di uscire dal proprio ruolo, di porsi sullo stesso piano dei ragazzi, di giocare a fingere di essere coetanei (nella chimera oggi molto diffusa di un’adolescenza interminabile) sono fallimentari perché vanno nella direzione opposta di quella che sarebbe necessaria: il recupero di un’auctoritas ricca di fascino e seduzione intellettuale, frutto di una distanza affermata (culturale, anagrafica, esperienziale) e di una capacità di ascolto e comprensione non paternalistica né fintamente complice.
L’insegnamento e l’apprendimento nell’attuale assetto scolastico s’incontrano raramente, le occasioni e le condizioni perché ciò avvenga sono difficilmente riscontrabili nella routine dell’orario scolastico: le classi sono troppo numerose, le ore di lezione poche e mal distribuite, la continuità didattica continuamente frammentata e interrotta da mille interferenze pseudo o para didattiche con il mondo esterno, l’habitat architettonico è spesso poco accogliente quando non fatiscente. Non basta invocare l’innovazione e l’integrazione tecnologica, essa non può supplire a ciò che è venuto meno (o forse nella scuola italiana non c’è mai stato se non saltuariamente e isolatamente): il rapporto profondo, autentico, maieutico tra docente e discenti. Un rapporto che anziché essere anonimizzato, parcellizzato, sminuito, dovrebbe essere il perno di tutta l’istituzione scolastica. Un rapporto tra esseri umani dove chi trasmette, oltre che possedere un sapere, ha coscienza precisa e umana della diversità e peculiarità di chi riceve e chi riceve ha desiderio di ascoltare e apprendere e sa rispettare il valore e l’autorevolezza dell’insegnante e dell’insegnamento.

Se nessuno interviene, il futuro dell’istituzione scolastica saranno il degrado e l’abbandono e l’analfabetismo sarà di andata e di ritorno, cioè globale. Le più feroci ricostruzioni distopiche cinematografiche non saranno all’altezza della realtà che si preannuncia, nella quale nichilismo, attivo o passivo che sia,3 e bullismo saranno dominanti.
La domanda perciò è: c’è una scuola possibile che non solo salvi se stessa dalla catastrofe, ma abbia anche la forza, come è nel suo statuto, di progettare e forgiare, attraverso le giovani generazioni, un nuovo mondo?
Qui si apre il dibattito cui dovrebbe aggiungersi ogni voce: la voce degli insegnanti, la voce degli studenti, la voce dei genitori, la voce di intellettuali e politici. In attesa intanto comincio con la mia elaborando alcune ipotesi, alcune idee e proposte in ordine sparso anche con un leggero intento provocatorio.

Innanzitutto occorrono investimenti consistenti. La formazione e l’educazione dell’individuo dovrebbero essere al primo posto nell’agenda di qualsiasi governo. Senza denaro è impossibile ogni riforma.
Il principio costitutivo del processo educativo al contrario di come è oggi dovrebbe essere basato sulla pratica della “separazione” piuttosto che sull’interconnessione. Interfacciarsi con il mondo, con la sua rappresentazione mediata e virtuale, crea solo confusione, distrae, evita un coinvolgimento pieno, corpo e mente, delle persone. Modelli ispiratori dovrebbero essere il “collegio”, il “monastero” e non la rete4. Come nelle società tribali l’itinerario scolastico va concepito come un vero e proprio “rito di passaggio”: un tempo lungo di separazione e isolamento durante il quale l’adolescente attraverso il superamento di prove specifiche approda infine all’età adulta. È chiaro che si tratta soltanto di un principio e di un’ispirazione, ma la ristrutturazione del tempo scolastico, l’assunzione del tempo pieno e la riconsiderazione dei rapporti con l’esterno (nel senso di una limitazione, compresa la dimensione scuola-lavoro) della scuola sono passaggi inevitabili se si intende istituire un corretto approccio al processo educativo. L’immersione completa e la concentrazione nelle tappe della scuola-“rito di passaggio” sono i soli presupposti che garantiscono l’efficacia del processo. Non si tratta di espellere la realtà storica e attuale, ma di farla rientrare nell’universo scolastico attraverso i saperi concreti oggetto di studio e non attraverso la promozione e accettazione di eventi straordinari, occasioni saltuarie non strutturate e non perfettamente organiche al percorso formativo, escludendo ogni irruzione in ambiente scolastico di interventi motivati da interessi che appartengono soltanto ad agenti e istituzioni esterne.
Le gite, per esempio, spacciate per momenti culturali, da intervallo leggero nel tempo intenso dello studio, sono diventate un obiettivo primario, moltiplicandosi e allungandosi, trasformandosi in un tempo senza controllo di licenza e non di libertà, ove il prolungamento dello studio all’aria aperta, in terra “straniera”, è scomparso del tutto, e informando della propria sregolatezza superficiale l’intero tempo della scuola. Ebbene una scuola-collegio non abolirà la gita, ma la riformerà radicalmente, ponendosi le domande: a quale scopo, e secondo quali modalità?
Al contrario i “laboratori d’arte” (teatro, cinema, musica…), oggi affidati al caso, al mecenatismo di qualche ente locale, precari per statuto e relegati all’extracurriculo, dovrebbero essere integrati nell’orario scolastico come saperi specifici, essenziali all’educazione-formazione dell’individuo.
Insomma la direzione riformatrice dovrebbe essere inversa a quella attuale: non concessioni per rendere la scuola (che resta dell’obbligo) più facile, più gradevole, più pseudo-liberale, ma ordinamenti per assegnarle valorialità e autorità attraverso un percorso non facilitato, e una distanziazione radicale dalle lucciole della mondanità.

In secondo luogo nella programmazione del curricolo di studi bisognerà rimettere al primo posto l’educazione e la formazione dell’uomo, riordinando la organizzazione e la trasmissione dei saperi secondo un criterio che ponga alla base l’aspetto umanistico, storico-filosofico e artistico e solo in seconda istanza la questione della preparazione al mondo del lavoro.
È inutile avere tecnici specializzati, profili professionali consoni ai nuovi tempi se alla base non c’è un uomo ben formato, con conoscenze culturali salde e dotato di senso critico. Anche su questo terreno si tratta di andare controcorrente. Oggi si tende a svalutare la formazione umanistica, con la scusa che c’è un problema sociale col lavoro e che negli anni passati gli istituti tecnici e professionali sono stati snobbati, sottostimati e semiabbandonati.
In realtà la cultura umanistica, che si dice sia stata privilegiata, è consistita soltanto in un accumulo svogliato di nozioni di routine trasmesse senza particolare profondità. Una sorta di eredità involontaria di un armamentario idealista postcrociano (poco importa se talvolta riverniciato di marxismo) incrostato nella scuola pubblica italiana e trasmesso passivamente di generazione in generazione di insegnanti.
I cicli andrebbero dunque rivoluzionati, l’obbligo scolastico esteso, la gerarchia delle materie riconsiderata, l’alternanza scuola-lavoro espulsa dal ciclo dell’obbligo e la formazione tecnico-professionale (ridefinita alla luce dei futuri assetti post-digitali del mondo del lavoro) posposta e incanalata in corsi postdiploma (equiparati alla laurea). Perché avere fretta di mettere in giro disoccupati mal preparati quando l’attuale trasformazione in atto della società e dell’organizzazione del lavoro richiede competenze sempre più alte e una solida formazione di base e dunque un tempo di studio più lungo?
banchi
Attualmente la scuola secondaria italiana è un “votificio” disseminato di prove e mini prove, di simulazioni e pre-esami, che tutto fanno tranne che testare veramente i progressi e la crescita culturale dello studente. In realtà questa proliferazione (al cui centro domina l’istituto delle prove nazionali denominate INVALSI)5, che tende pericolosamente – come è stato nel tempo rilevato da più parti – alla standardizzazione nozionistica della valutazione6, risponde all’esigenza primaria di rendere tutto più facile, di assistere gli studenti, immaginati come pieni di paure, insicuri e bisognosi di continue stampelle e protezioni. Il motto non è “studia e poi vediamo quello che hai capito e imparato”, ma “non ti preoccupare siamo qui per aiutarti, facciamo continuamente dei test per addestrarti a superare le difficoltà dello studio”.
Non a caso la prima dichiarazione dell’ultimo ministro dell’Istruzione è stata la promessa di un esame di maturità “più facile”.
Ri-umanizzare il processo di insegnamento-apprendimento, lasciando alla libertà del docente ogni valutazione dovrebbe viceversa tornare (se mai lo è stato) ad essere il principio regolatore di ogni curricolo di studio. L’ossessione per la categorizzazione, secondo la quale ogni conoscenza o competenza può essere catalogata, scomputata e valutata separatamente, unita alla pretesa di un’“oggettività” scientifica e asettica della valutazione, sono oggi il dogma in auge dal quale non si può prescindere e invece è proprio la dimensione “impura” e perfettibile, soggettiva e interumana del rapporto docente/allievo la sola garanzia di un buon esito del processo educativo.
Certo, bisogna creare le condizioni formali e materiali perché questo rapporto sia reso possibile e valorizzato, a partire dal ruolo e dalla formazione dell’insegnante.
Ho già detto di quanto sia oggi screditata la figura dell’insegnante, ma va aggiunto che non parliamo qui di un mestiere qualsiasi, ma di una vera e proprio missione che richiede una sorta di “vocazione” per essere abbracciata. Allora la formazione e la selezione del corpo docente, oltre che orientate a fornire e valutare conoscenze e competenze generali e specifiche, dovrebbero acclarare l’esistenza innanzitutto di una “vocazione”, la consapevolezza della delicatezza e della centralità del proprio ruolo, le capacità/facoltà ad adempiere in pieno ai propri compiti. L’insegnante, rivalutato e non inceppato da pastoie burocratiche, né dalla presenza di genitori sindacalisti a priori dei propri figli, in un certo senso dovrebbe profilarsi come un individuo “eccezionale”, un maestro, qualcuno che guida e accompagna lungo la strada della conoscenza, che ascolta e sa farsi ascoltare, che trascina lo studente nell’avventura affascinante e unica della propria crescita e formazione come uomo…

E qui mi fermo in attesa di aggiunte, obiezioni, proposte e ulteriori analisi, auspicando l’avvio di un dibattito a più voci su questo tema centrale nella nostra società.

1
Cioè non eterodiretti, ma frutto ed effetti delle mutazioni in atto che disordinatamente si producono nel corpo sociale.
2
Le mie conoscenze riguardano soprattutto la scuola media superiore dove ho lavorato per più di trent’anni come esperto esterno conducendo laboratori e seminari di teatro.
3
Così Umberto Galimberti che in due saggi, ad un decennio di distanza, “L’ospite inquietante” e “La parola ai giovani” mette a fuoco la nozione di nichilismo nelle varianti passiva e attiva, rassegnata o impegnata, a proposito delle giovani generazioni dei nostri giorni.
4
Naturalmente quanto proposto in queste righe non va interpretato alla lettera, ma come una metafora e cionondimeno andrebbe perseguito con scrupolo nella sua traslazione concreta.
5
Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione. Un acronimo che suggerisce il contrario di ciò che vorrebbe attestare, quasi che nel definirlo ci fosse già la coscienza della sua “non validità” fattuale.
6
“Le prove Invalsi sono una mostruosità, una cosa senza alcun senso, che può servire se mai a premiare chi è dotato di un po’ di memoria più degli altri, non chi ha spirito critico. Poiché la scuola dovrebbe essenzialmente far nascere lo spirito critico, la miglior cosa sarebbe eliminare l’Invalsi e restituire i suoi test a chi li ha inventati.” (Luciano Canfora, 2013)
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