Pro e contro (me stesso)
Postato il 29 Agosto 2018, di Giorgio Pangaro
sindacato

Caro Francesco,

prendo spunto dal tuo Lo stallo delle sinistre, con il quale, sia chiaro da subito, concordo pienamente. Pur trattandosi di un’analisi per certi aspetti generale, mi pare comunque che tocchi molti, se non tutti, i punti dolenti, i nodi irrisolti, le distorsioni e le depravazioni, che ci hanno condotti alla situazione attuale. Sono stato comunista (senza tessera) e sono stato sindacalista (con tessera), lo sono stato da giovane e lo sono stato da adulto, certo non pretendo per questo di imbarcarmi in una disamina globale sullo stato delle cose del comunismo né su l’attuale sindacalismo. Vorrei soltanto portare una personalissima testimonianza su come sono andate le cose per me. Ma forse non solo per me. Ho iniziato la mia carriera lavorativa nei primi anni ’60, come fornaio, e le condizioni di lavoro non somigliavano affatto a quelle attuali della categoria. Si lavorava sette giorni su sette, dalle 3 del mattino sino alle 10/11. I padroni erano padroni, il salario veniva pagato il sabato, si aveva diritto a portare a casa un kilo di pane. Rispetto ad altre categorie di operai eravamo ben pagati, forse i più pagati, ma eravamo anche quelli meno sindacalizzati e probabilmente anche i più deprivati in termini di vita sociale e familiare. Ovviamente lavorando quando tutti dormono, non puoi che dormire quando gli altri lavorano. Ho cambiato molte volte datore di lavoro, all’epoca era abbastanza facile, cercando sempre di ottenere migliori condizioni economiche. Posso testimoniare che il livello di scolarizzazione era paurosamente basso, io stesso potevo vantare soltanto una licenza elementare, ma spesso mi son trovato a lavorare con compagni se non proprio analfabeti almeno semianalfabeti. Era difficile far valere una qualsiasi rivendicazione, fosse salariale ovvero di condizioni migliorative tese a rendere meno gravoso il mestiere (il caldo e la fatica a volte erano stremanti). Era difficile organizzare una compagine, tutto sommato minuscola, di operai sparpagliati in una pletora di piccole botteghe, spesso diffidenti e impauriti, quando non ricattati dai padroni con la minaccia del licenziamento. La Statuto dei Lavoratori arriverà nel 1969, ma non si riuscirà mai a renderlo operativo ed efficace per le Aziende con un numero di dipendenti inferiore alle quattordici unità.

Giuseppe Di Vittorio
In ogni caso fare il sindacalista allora aveva senso, anche ai livelli minimi come quelli in cui io ho agito. Era ancora possibile identificarsi con una dirigenza che, seppure più acculturata e politicamente più cosciente, aveva le nostre stesse radici. Giuseppe Di Vittorio, fondatore e primo segretario della CGIL nonché membro della Costituente nelle file del PCI si distinse anche per aver preso rapidamente le distanze da Togliatti da cui lo divideva il giudizio rispetto al comunismo reale di Stalin. Veniva da una famiglia di braccianti. Agostino Novella, che divenne segretario alla morte di Di Vittorio, era un operaio, metalmeccanico, cominciò la sua carriera nella FIOM. Allora (non erano bei tempi!) era facile darsi del tu, era facile chiamarsi compagni. Aveva senso, aiutava a non sentirsi soli. Anche, e forse soprattutto, in una città poco di sinistra, tanto per usare un eufemismo, come quella in cui son nato e dove ho cominciato la mia carriera lavorativa. Con un bel salto nel tempo e nello spazio mi son ritrovato a fare il sindacalista da impiegato, continuando a sentirmi un operaio. In mezzo c’erano stati gli anni Settanta del boom, gli anni Ottanta con il benessere diffuso e il dilagare di una classe media (medio-bassa) famelica ed incontentabile, gli anni Novanta con la deriva politica, l’american way of life nella sua declinazione più becera, il consumismo sfrenato, lo spreco, l’edonismo sfrenato anch’esso, e la riduzione allo stato liquido del sociale. Mi son ritrovato a fare il sindacalista, mio malgrado, e come primo atto del mio mandato ho dovuto difendere dei privilegi. Non entro nei particolari. È una storia per molti versi penosa. A mia, parziale, discolpa dico soltanto che non potevo fare diversamente in quel momento. Affermo pure che sono convinto di essere sempre (meglio dire quasi sempre) riuscito a limitare i danni. Limitare i danni nello specifico vuol dire semplicemente aver rintuzzato pretese eccessive e rivendicazioni infondate, cercando, per quanto possibile, di difendere i diritti e di far rispettare (per quanto è stato possibile) i doveri. Fare il sindacalista della classe media non è facile né gratificante, sono però convinto che qualcuno debba continuare a farlo. Ma quel qualcuno, di questo sono ancora più certo, dovrà cominciare a farlo in maniera differente. Non ho doni profetici, sono solo convinto che l’attuale deriva del sindacato insieme alla deriva della politica possano trovare un cambio di rotta unicamente ripartendo da una presa di coscienza etica: non facile e non di breve periodo.
Con affetto,
Giorgio Pangaro


marcia dei quarantamila
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