L'altro potere - stampa, media e wen nell'era digitale
Postato il 4 e 13 Agosto 2018, di Francesco Torchia Torchia
giudizio

- Ma così vanno le cose. Quando la tragedia umana si è compiuta, la si passa ai giornalisti affinché banalizzandola, la trasformino in spettacolo.
Philip Roth – Ho sposato un comunista
(Ahimè, oggi è vero il contrario, la tragedia si compie direttamente sul palcoscenico dell’informazione/spettacolo perdendo ogni parvenza di umanità)

I parte, 04/08/18

Il potere politico non è in mano ai governi, né ai partiti o alle formazioni politiche. Nella scala gerarchica dei poteri nelle attuali “democrazie” dell’occidente, governi e partiti occupano l’ultimo posto. E ciò è non da oggi, ma da almeno cinquant’anni, anzi è un cambiamento che ha cominciato a verificarsi dalla fine della seconda guerra mondiale e che si è compiuto definitivamente con l’inaugurarsi della terza rivoluzione industriale, quella che ci ha lanciato nell’era del digitale, verso l’automazione.
Il ruolo di quello che arcaicamente fu definito “quarto potere” in questa rivoluzione è diventato preminente, nella sua accezione allargata che comprende in un miscuglio indistricabile: stampa, media e web.
Il ‘quarto’ o quinto o sesto potere, come si preferisce, avendo stretto, per ragioni di sopravvivenza in termini di audience, pubblico e mercato, una alleanza fatta di reciprocità, protezionismo, giochi d’eco e risonanza, svolge un ruolo apicale nella scala succitata del potere. Nella genericità delle analisi e dei commenti, frutto di approfondimenti mancanti - sempre tanto necessari quanto rinviati -, il potere di stampa-media-web è cresciuto al punto da essere in grado nella babele concorde delle sue voci di influenzare radicalmente la percezione della realtà e le conseguenti scelte elettorali, nonché i comportamenti esistenziali e politici dei cittadini (degli elettori, dei popoli).
Non importa quanto siano comprati e letti i quotidiani, quanto siano seguiti i talk-show politici, quanto siano frequentati i blog politici, quante visualizzazioni abbiano i post e/o i tweet sui social network, per tanto o poco che sia, è l’eco dei loro commenti, dei bisbigli, cinguettii e urla a costituire l’aria che respiriamo, cioè la Doxa, che come è noto, sin da Aristotele, si contrappone alla Scienza ovvero alla verità. Realtà e verità, chimere d’ogni epoca e d’ogni epistemologia, tuttavia, mai come oggi sono state così evanescenti, inconsistenti, forse davvero svanite, andate in fumo, dissolte dall’eccesso di ‘percezioni’ indotte, insufflate nei corpi e nelle menti degli abitanti del pianeta.
È noto il luogo comune che le bocche e le penne dei milioni di giornalisti, più o meno improvvisati, vomitano in continuazione: il richiamo alla realtà, l’inchiesta, il servizio che mostra la realtà, la somma di quattro interviste e una paccottiglia di immagini montate a suon di musica che si auto-dichiarano ciò che c’è di più prossimo alla realtà e pretendono il suggello di verità.
Così, facendo leva su dati statistici monchi e bislacchi, su inchieste e informazioni parziali, l’Italia, per esempio, diventa un paese di poveri, un paese fermo, un paese insicuro, un paese invaso da orde di migranti incontrollate. Tutt’al più mezze verità, quando non smaccatamente menzogne alimentate per influenzare e condizionare la doxa: le percezioni e le opinioni di massa, enfatizzate e ripetute ossessivamente dagli organi di stampa, dai media, dal web, utilizzate cinicamente dai tanti Masanielli che da sempre popolano l’italico bestiario politico.
Il quarto-quinto-sesto potere, che d’ora in poi chiamerò, l’altro potere, muovendosi fondamentalmente in funzione della propria sopravvivenza e affermazione e non secondariamente delle ambizioni e dell’arroganza dei suoi protagonisti (giornalisti-conduttori televisivi, blogger) ha assunto negli ultimi tre decenni il ruolo e il compito di “costruire la realtà”.
Il resto dei cittadini, il popolo, le classi, i ceti sociali, i singoli individui, pur vivendo nella “realtà” ed essendo “realtà”, assistono passivi alla sottrazione della loro concretezza precipua, sostituita da quella definita, costruita dall’altro potere. Una sorta di “fiction” cui tutti finiscono col credere, di cui tutti si immaginano di essere attori e personaggi principali.
Lo chiamano il “paese reale” e suffragano la sua “realtà” con veloci inchieste giornalistiche, tendenziose interviste, pletorici e scontati sondaggi, ne sanciscono l’assoluta aderenza alla “verità” con analisi e commenti, che si vogliono “oggettivi” e sottratti a qualsiasi logica d’interesse, aspirano ad una “scientificità” super-partes, ma che tali non sono e rappresentano soltanto una parte della “doxa”, distaccatasi dal resto e autodichiaratasi, per ragione di forza, ruolo sociale e privilegio, “scienza”. Competente di tutto e incompetente di ciascuna materia, la casta dei giornalisti-conduttori televisivi-blogger si innalza al punto da assumere il ruolo di maitre-a-penser (sociologhi, filosofi, economisti, storici, scienziati del’ “reale”) del tempo presente. Scrivono libri di storia, di sociologia, di economia politica, elargiscono a destra e manca i loro consigli etico-politici, le loro considerazioni intrise di psicologia e filosofia. Nella loro vanagloria autoreferenziale credono di abitare l’Olimpo del sapere contemporaneo, mentre in realtà vivono immersi in quel gigantesco “bar sport” dove ciascuno è allenatore, presidente del consiglio, dirigente di qualcosa, dove se emergono è solo per eccesso di prepotenza o talvolta per essere i padroni o i gestori del bar.
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L’arma segreta, lo strumento principale con cui l’altro potere ha conquistato l’apice della scala gerarchica dei poteri è l’accoppiata dietrologia-retroscena. Il discorso su “ciò che sta dietro” e la rivelazione di “ciò che non appare” sono le prerogative che separano e distinguono l’addetto all’informazione dal resto della popolazione beota che crede solo all’evidenza di ciò che appare. Una nuova classe di chierici si è dunque instaurata pronta ad indottrinare con ‘parole di verità’ tutti coloro che non sanno e non hanno coscienza profonda della realtà nella quale vivono.
Il ricorso degradato alla coppia dietrologia-retroscena, manifesta un uso pop e sgangherato di qualcosa che appartiene all’episteme della modernità e che si prolunga nella postmodernità sia pure nelle forme dell’eccesso e della semplificazione. Qualcosa dunque che va analizzato scrupolosamente.
Il topo/talpa dei corridoi parlamentari, delle stanze segrete, degli ingressi delle sedi di partito, il cane da caccia delle rincorse stradali alle volpi, ma talvolta anche ingenui leprotti, del nostro bosco politico, raccoglie voci, strappa ambigue dichiarazioni, registra ogni esitazione, minimo cambiamento di tono vocale, pone domande sempre banali, ma insinuanti e poi, nello studio televisivo, davanti al tablet/notebook o nella sede del giornale, ricostruisce, mette in collegamento, allestisce il “retroscena” come scena principale (freudianamente “primaria”).
La verità è il retroscena che smentisce e contraddice sempre ciò che si manifesta sulla “scena”.
La metafora è teatrale, ma è usata a sproposito. A teatro il backstage non è tanto lo spazio invisibile oltre i confini della scena, ma soprattutto il tempo, ovvero le prove, il faticoso percorso che conduce allo spettacolo, e dunque rappresenta davvero qualcosa di rivelatore, seppure non abbatte il primato della scena. L’evidenza scenica e performativa è il premio di un buon itinerario di prove, dunque è la sola a far testo. Il backstage non può essere usato per confutarla o contraddirla. Viceversa nei media il retroscena è utilizzato proprio per smascherare e rovesciare le dichiarazioni e gli atti ufficiali.
Ora, è vero la classe politica, i governanti attuali, sono figure assai deboli e meschine, ma ciò non giustifica il permanente ribaltamento del principio di verità, non appare come un modo corretto di fare informazione.
C’è in questa dicotomia “retroscena/scena ufficiale” l’acquisizione snaturata e degradata da un uso (in gran parte inconsapevole), di un nodo centrale nella nostra episteme culturale, che risale già alla fine del XIX secolo e si arricchisce di nuovi connotati nella seconda metà del secolo scorso. È il nodo (e anche forbice) tra intenzione e azione (in psicologia), tra struttura ed evento (nelle altre scienze umane). Intenzione e struttura sono concetti complessi, stratificati, non possono essere utilizzati come poli dialettici contrapposti a azione ed evento, senza sintesi, soltanto rovesciando l’ordine gerarchico, con la manifesta volontà di attribuire verità al retroscena (intenzione/struttura) e menzogna alla scena ufficiale (azione/evento). Si tratta in fondo di un’operazione demagogica che affonda nella e genera la doxa, appunto. Saltando i pur necessari approfondimenti, arriviamo alla parola magica che oggi s’agita inconsultamente in ogni luogo e istituzione dell’informazione (persino nei report degli statistici): percezione.
Si dice: la percezione è oggi ciò che più conta. I flussi migratori, per esempio, sono modesti, ma la percezione è quella di un’invasione, i reati dei migranti in percentuale rispetto al numero di migranti presente sul territorio è inferiore a quella dei reati dei nativi, ma la percezione è il contrario… Allora qual è la verità? Cosa conta? La percezione o i fatti?
Fatti, non interpretazioni (gridava Nietzsche, dopo aver constatato che solo di quest’ultime si nutre l’umanità), e nemmeno percezioni che quasi sempre danno adito a false interpretazioni. Chi oggi fa affidamento su di esse per fondare la realtà della propria informazione o peggio ancora per legittimare concrete politiche sociali, ignora la travagliata storia filosofica del concetto di percezione, così come il conseguente rischio di fallacità.
L’accoppiata retroscena/percezione è l’arma letale con cui giornalisti, di prima, seconda e terza fascia, anchormen e conduttori di talk show politici, blogger e commentatori all’assalto del web*, hanno vinto la loro guerra, installandosi – poiché capaci di influenzare, orientare, condizionare culturalmente le opinioni pubbliche - in capo al potere politico delle società contemporanee.
* Naturalmente in questo desolante panorama generale, ci sono molte eccezioni, esponenti della stampa e dei media che svolgono con scrupolo, fondamenti scientifici e amore di verità il proprio lavoro d’informazione. Non devono sentirsi accomunati, ma stimolati a fare chiarezza nei propri ranghi e ad imporre la loro voce autorevole.
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II parte, 13/08/18

Tre premesse, tre discorsi paralleli, saltando dall’uno altro… in volo senza pretese di scientificità. Magari con qualche non casuale confusione. Insomma una scombinata rapsodia. Del resto non è tempo di somme e conclusioni che non possono che essere sempre rinviate: la “realtà” (si fa per dire) è in continuo movimento, anche se non va da nessuna parte.
In-formazione, contro-informazione, disin-formazione, prefissi che si cortocuitano nel caos informatico dell’oggi, scambiandosi di ruolo, confondendosi e ottenendo alla fine l’unico risultato della de-formazione che è l’incontrario della de/costruzione e del de/condizionamento.
A rimetterci naturalmente è proprio la formazione, quell’azione che mette in forma, ma non costituisce se non la griglia di un contenuto che l’eredità genetica, il tempo, lo studio e l’avventura della vita provvedono a determinare.
Come ci formiamo, chi ci forma, quali fattori generano le nostre idee, opinioni, determinano le nostre passioni, disegnano le nostre percezioni, materializzano emozioni e sentimenti?
Sembrerebbe tutto naturale, organico, spontaneo, frutto di un flusso continuo, lineare e - perché no - progressivo (come le “sorti” leopardiane), ma non lo è. Non c’è origine, non c’è principio, né uovo né gallina, e non c’è fine o scopo, non c’è sostanza, solo forma – vuota o cieca che sia – forma che come una cellula malata rigenera se se stessa all’infinito.
La famiglia ci genera, ma ci perde subito di vista, ci abbandona o siamo noi a fuggire via, o l’universo mondo ci rapisce al primo vagito, la scuola ci tiene per un tempo più o meno lungo, ma non riesce ad insegnarci niente e nemmeno ci forma.
La nostra form-a-zione è pura eugenetica sociale. Deformando de-sostanzia l’individuo, lo rende manipolabile come plastilina. Una clonazione è in atto già nel ventre materno. Ecco perché non siamo e non saremo mai noi stessi, perché non esiste da nessuna parte un noi stessi da essere.
Nel tempo della babele liquida, della percezione scambiata per realtà, nella rete dei promoting, merchandising, marketing, publicizing, consuming, shopping, talking&talking e chi più ne ha più ne metta…, gli altri – pur nella loro inconsistenza - ci formano, desonstanziandoci; gli altri che sono come noi “proletari spirituali”, gli altri alienati come noi nella doxa, una nebbia mobile che ci avvolge, ci modella e, mossa dal vento delle parole dell’informazione-persuasione, ci trasporta.
Per questo l’“altro potere” ha tutto il potere, oggi. La sua voce circola come aria insana, la respiriamo e inquina i nostri polmoni, riempie la nostra testa, scompone gli emisferi, detta tutte le parole che pronunciamo e scambiamo.
È come se dunque vivessimo circonfusi di nebbia (la nostra aura), la nebbia delle interpretazioni cangianti, delle percezioni mutevoli, delle sensazioni sfuggenti, che tuttavia sono il filtro tra noi e la realtà, al punto da convincerci d’essere davvero la realtà. Ci sfiorano gli occhi, sussurrano alle orecchie, lambiscono, accarezzano e lacerano la pelle. Le annusiamo, le assaporiamo sulla lingua, ci sembra di sentirle consistenti al tocco. Ci penetrano attraverso i mille orifizi, attraversano i muscoli, la carne, arrivano fino al cuore, al cervello, si sublimano, diventano sottili e ci inebriano, de/formano la mente appunto, mentre ci sottraggono il corpo. E la realtà? Esiste? La dicotomia fenomeno-noumeno, parvenza- essenza, fatto-interpretazione, ha ancora senso?
La realtà della formazione dell’essere umano, quale che sia il prefisso che la regge, regredisce allo stadio zero, fino a scomparire inghiottita nella grande entropia dei buchi neri del linguaggio binario.
Nell’oceano informativo-informatico che ci circonda, tutte le news sono false, tutte le opinioni per quanto siano in battaglia fra di loro si equivalgono. Così, navighiamo come barche senza timone in balia dei venti e delle correnti, ma leggeri, dematerializzati, visibili gli uni agli altri solo come icone sbiadite, avatar di nessuna identità. Hanno buon gioco quelli che si sono ritagliati uno spazio di finzione, inventandosi un’identità, fittizia ma a cui diversamente dagli altri credono, ergendosi a fattori di realtà, a guide per mutilati; opinion leader, si definiscono, rivelatori di verità nascoste, indicatori di orientamenti possibili. Li vediamo appena, comporsi come figure tra i pixel di televisori in 4k, li riconosciamo a stento dietro le firme apposte sui fondi di giornale, ci solleticano i più bassi istinti attraverso la coltre di fumo, rabbia e risentimento che trapela dalle urla scostumate e dai lividi cinguettii che affollano milioni di blog sul web, i commenti ai blog, i commenti ai commenti… in un circuito delirante e senza fine. Forse non li ascoltiamo che in minima parte e li leggiamo con distratta curiosità, magari ci asteniamo dal commentare, ma assistiamo immoti, ahimè passivi, allo spettacolo dell’informazione globale. Ed è proprio questo che ci de-forma e ci uccide.
Il volo s’inceppa, non arriva al sole, la nebbia ne svia la rotta e precipitare nella “cronaca”, quella che si dichiara tale ai nostri occhi tale, è l’ultima, meschina meta…
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C’era una volta, ai tempi dei pionieri, il newspaper, di anglossassone tradizione, l’animato e animoso foglio che diffondeva le notizie e denunciava i misfatti che la gente non poteva sapere. Ha fatto strada da allora, poi è venuta la radio e subito dopo la televisione con i suoi telegiornali, i mezzibusti, le paludate tribune politiche e qualche raro settimanale d’inchiesta. La tv si è evoluta (?), i telegiornali espansi in mille speciali su ogni minimo evento, le tribune si sono sfasciate nei salotti dei talk-show politici quotidiani, le inchieste sono diventate documentari, film, opere d’arte (dunque per ragioni di forza maggiore tendenziose, parziali). E i mezzibusti? Si sono drizzati, camminano - con la fiera baldanza di chi governa le cose - in lungo e largo negli studi televisivi, attaccandosi ora a un ospite ora all’altro, entrano nell’occhio della telecamera e si rivolgono direttamente allo spettatore, blandendolo o sferzandolo. Sono i padroni della scena, al punto che molti di loro, non paghi del potere acquisito, calcano anche le tavole dei palcoscenici teatrali, allestendo monologhi, trasformandosi in attori, scacciando il teatro, quell’antico mestiere, ricco di sapienze nei secoli accumulate, fuori del suo edificio, per installarvi la nuova scena, quella della vita quotidiana trasformata in spettacolo.
Del resto sono personaggi, e mettono in scena se stessi, personaggi borghesi, ma con ancora la maschera pre-goldoniana, sollevata sulla fronte: quella sorridente e bieca (lo spadaccino) della iena travaglina, quella paffuta, all’apparenza bonaria del balanzone che viene dal sud e non da Bologna, quella del furbetto milanese (mezzettino/brighella) che non può far a meno di condire anche il racconto della più orribile tragedia con qualche battuta di spirito, ridendosela da solo, quella dei tanti pulcinella-arlecchini , ora accigliati, ora lamentosi, sempre affamati di notizie fresche da spolpare, pronti a cambiar rotta a seconda delle correnti, a servire due o più padroni. e così via… a non finire. È la farsa/tragedia del nostro paese: il passato si reincarna sempre nel presente, impestando il futuro e impedendogli di avanzare. Gli zanni di ieri, alzando la voce e affermando il loro primato derivato dal potere della parola, sono diventati i padroni dell’oggi. Gli unici a certificarsi, contro ogni evidenza, un’identità.
Ma, nonostante l’omogeneizzazione della realtà liquido-gassosa, c’è una scala gerarchica. Ci sono i piani alti, gli intermedi e poi c’è la strada, la piazza, televisiva, della rete più che sociale. In cima siedono e s’aggirano i padroni non del vapore e nemmeno delle rotative, ma dell’ordine delle parole (del discorso) e della loro distribuzione. Scendendo verso le piazze si umanizzano, assumono i volti, le sembianze di una seconda, terza generazione di apprendisti stregoni che, in mancanza di alternative professionali e lavorative, forgiati da insegnamenti labili e inventati in apposite università di giornalismo, in autoproclamate piattaforme formative del web, nelle carriere clientelari interne dei network televisivi, s’affacciano nelle strade, inseguono la folla, la bombardano di domande, la fotografano, la filmano, la incalzano insinuando cattivi pensieri, sondano e insufflano, tutti presi dalla voglia frenetica di scalare fino ai piani alti. Là dove i fabbricatori di realtà, al di là di ogni distinzione tra vero e falso, avvelenano i fatti e ce li restituiscono contraffatti come pasto quotidiano alimentando collere, rancori e malcontento a disposizione del primo demagogo in circolo nella piazza.
In questo modo potere e sapere si saldano e si mescolano, facendosi onnipresenti, non penetrando, ma costruendo i corpi, e così in definitiva l’altro potere incarna la più perfetta macchina da guerra per quella microfisica del potere di cui già parlò Michel Foucault. È il panopticum interiorizzato, l’occhio del grande fratello installato nel cuore di ciascuno, metafora, che ben oltre la sorveglianza invisibile assume il compito di creare uomini e realtà, e all’occorrenza sa ancora punire.
panopticon
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